Cara Italia, ti ringrazio. Le parole d’amore di un ‘curdo-italiano’ per la Patria della Bellezza

di Thomas Invidia 28 Ottobre 2019

Sappiamo ancora emozionarci di fronte ad una storia? Probabilmente molti risponderanno "dipende".

Da che cosa deriva un'emozione? Secondo me, si origina dal contatto con un'esperienza che ci segna, ci marchia, ci lascia un tratto indelebile nello spirito. Quella traccia che mi hanno lasciato le parole di Awat, un nome di fantasia che in curdo significa "speranza", che ha deciso di condividere la sua sorprendente storia di vita con i lettori di Totem.

Quella speranza che l'ha spinto a sorridere alla vita, nonostante una bomba di fabbricazione italiana (una Valmara) gli abbia sottratto il possesso completo del corpo dal busto in giù. Ho apprezzato il suo sorriso durante l'intervista, quella capacità di dire che non tutti gli uomini sono seminatori di morte e che la vita è un valore, un bene essenziale da salvaguardare.

Stava andando a scuola, aveva sei anni, era il 1980. Una mina antiuomo lo ha spezzato in due. Lui non si è arreso, ha continuato a frequentare la scuola e a credere nella possibilità di essere libero grazie all'istruzione. È diventato giornalista, difendendo i diritti dei disabili da presidente dell'Handicap Union of Kurdistan. L'opposizione al governo iracheno non ha mai avuto vita facile, figuriamoci su un tema scomodo come la disabilità. Saddam Hussein, ex dittatore iracheno, è un comprimario di questo racconto, il fautore dell'acquisto delle mine di fabbricazione europea durante gli anni del suo regime. È stato solo lui il mostro? No, sarebbe troppo semplice concentrare le colpe di tanti in un individuo sconfitto dalla storia, un cancellato dalla "gomma della democrazia occidentale".

L'Europa, che l'ha combattuto sul campo di battaglia mediorientale, è stata segretamente compiacente circa il mondo di mezzo del commercio di armamenti. La storia tende a ripetersi ciclicamente, il Vecchio Continente attualmente complice dei Turchi circa la vendita di armamenti ed equipaggiamenti, con questi ultimi che si sono resi protagonisti in queste settimane di un'aggressione illegale ai danni del popolo curdo siriano nel Nord-est della Siria. C'è una verifica matematica circa la subordinazione dei valori di civiltà verso interessi economici lobbistici. Awat ha cercato l'Europa, quel groviglio di stati che litigano e bisticciano, sa che la democrazia non è perfetta. Ha agognato la possibilità di appoggiare politici e scegliere di seguire quella classe dirigente che è stata complice nella vendita di quella maledetta mina. Dovremmo capire che avere una scelta, e sbagliare consapevolmente, sarà sempre meglio del non avere un'opzione.

Appena tre anni fa ha deciso di scegliere.

Dal Kurdistan iracheno si è messo in viaggio fino alla frontiera turca, con sua moglie ed i suoi due figli. Un furgone clandestino, non un viaggio in prima classe, li ha scortati fino al confine. Hanno dovuto pagare per poter usufruire del "servizio", un business illegale che si alimenta dal sangue e dalla disperazione. Dalla Turchia alla Grecia, venti giorni di peregrinare in mezzo all'illegalità e in balìa della paura: terrore dello Stato, anzi degli Stati, che con le forze di polizia dovrebbero assicurare sicurezza e legalità, laddove invece vigono guerre tra poveri per un pezzo di pane, il freddo, la sporcizia, bande di immigrati-criminali che terrorizzano altri disperati come loro con coltelli, percosse e minacce; è questa l'Europa?

Un faro spento in un mare di perdizione, dove un coacervo di disperati rischia la vita per la terra promessa, per avere una conferma dei propri diritti. Dalla Grecia, una volta che le autorità hanno riconosciuto le loro generalità, Awat e famiglia sono stati trasferiti in Svezia, dove sono rimasti circa un anno. Gli scandinavi non sono poi tanto diversi dagli omologhi greci, il meccanismo dell'integrazione è fenomenale nel vendersi all'esterno benché l'essenza lasci molto a desiderare. Otto poliziotti li aspettavano all'aeroporto, una scorta degna di una delegazione diplomatica. Quasi come una festa, un festeggiamento senza i padroni di casa, però. La famiglia è stata destinata ad un campo profughi, in una zona non meglio precisata della Svezia, lontano dai centri abitati e insieme a decine di altri bisognosi di assistenza in seguito alla migrazione. Praticamente assenti i contatti con il mondo esterno, l'unico collegamento era un autobus che consentiva ai ragazzi di andare a scuola. Uscire a piedi, senza alcun mezzo e con il freddo nordico nelle ossa, non sarebbe stata una grande idea. La vita nel campo era caratterizzata dal nulla, alloggi di fortuna in cui bisogna fare attenzione alle proprie cose e scegliersi con cura, per quanto possibile, i vicini. Dalla Svezia l'arrivo in Italia, a Roma circa due anni fa e da un anno a questa parte in territorio pugliese, in un Comune nord salentino.

L'esperienza nella Capitale, ci racconta con grande imbarazzo, è stata intensa, anche se il degrado della città non rende giustizia alla sua intima ed essenziale bellezza. Una dicotomia, bellezza e malagestione, che ha reso Roma un diamante grezzo. Tuttavia, ci confida Awat, i romani sono persone meravigliose e l'Italia lo ha accolto calorosamente. Lui non ci nasconde di sentirsi curdo-italiano, lo fa con naturalezza e senza dimenticare le proprie origini. Anche per quanto riguarda i diritti dei diversamente abili, con le barriere architettoniche meno presenti rispetto alla sua terra natale. Sta imparando anche il dialetto, abbiamo avuto una conferma importante dal brillante "Ni scia curcamu" successivo alla conclusione della nostra chiacchierata. Manda i figli a scuola nel nostro Paese, sta imparando la lingua, non è raro vederlo in giro per le strade della cittadina dove attualmente risiede con lo sguardo curioso e indagatore sul volto. Deve proprio piacergli la nostra vecchia e magnifica Italia.

Attualmente ha lo status di rifugiato, ma non è cittadino italiano secondo la Legge. Nel Paese si discute se sia il caso di rivedere lo Ius Sanguinis o introdurre una forma di Ius Soli. Al di là delle posizioni politiche, sarebbe il caso di smetterla con le generalizzazioni che non aiutano nella comprensione dei problemi e bisognerebbe iniziare ad analizzare le situazioni caso per caso, ascoltando le loro vicende umane. Forse scopriremmo, se lo facessimo, che essere italiani non è un salvagente, ma la conquista di un sogno, il desiderio della libertà, la conclusione di un percorso di consapevolezza dei propri diritti e dei propri doveri verso le istituzioni ed il prossimo.

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