Lettera del dott. Sisinni: dopo la strage di Ardea è necessario rivedere la legge Basaglia

a cura della 18 Giugno 2021

In una lezione di Medicina legale, nel lontano anno accademico 1964-65, il Direttore dell’Istituto, Folco Dominici, commentando l’autopsia eseguita dal medico-settore,

un suo assistente, sul corpo nudo di tre giovani donne, vittime della strada, disse a noi studenti del V anno che quando, in un evento catastrofico, il numero dei morti tocca le tre unità, si parla di strage. Ora la vicenda di Ardea (Roma), verificatasi pochi giorni fa, lasciando tutti (o quasi) increduli e senza parole, corrisponde ad una vera e propria strage. Ma – è questo il punto! – tale strage era stata annunciata e nessuno aveva preso i provvedimenti adeguati e necessari. E questa strage è – se riflettiamo – frutto della legge Basaglia, nata più di quarant’anni fa, sotto la spinta emotiva di un referendum organizzato dal radicale Pannella e compagni di partito, che chiuse i manicomi, in fretta e furia, prima di creare valide e dignitose strutture extra-ospedaliere, sul territorio, dove accogliere tanti ammalati, molti dei quali senza famiglia o molto deteriorati nella personalità, soprattutto dal punto di vista psichico.

Nacquero i “repartini” negli ospedali generali con dieci o quindici posti letto (non di più!) che qualcuno, a ragione, definì minimanicomi; dove poi si usavano gli stessi metodi di cura di prima (forti dosi di psicofarmaci – camicie di forza chimiche – a dosi cavalline per prevenire la sicura o molto probabile carenza di posti letto, e anche le famigerate fasce di contenzione, al bisogno, per far fronte alle crisi di violenza, definite pantoclastiche).
Tornando al clamoroso caso di Ardea, Andrea Pignani, ingegnere informatico non in attività per disturbi mentali, ha impugnato una pistola irregolarmente detenuta e ha fatto fuoco, uccidendo due fratellini ed un pensionato, Salvatore Ranieri, forse perché era intervenuto a difesa dei due minori (non è ancora chiaro). Il Pignani era stato dimesso dall’ospedale di Ariccia dopo meno di ventiquattro ore. Aveva, quindi, alle spalle, un provvedimento di “Trattamento sanitario obbligatorio” (Tso, in sigla). Per i medici – leggo su “Il Messaggero” di martedì 15 giugno "... necessitava di trattamento non immediato ed era stato affidato al padre”.
Poi le dichiarazioni – come da copione – del giorno dopo dei politici. Ne riporto una, perché è di una donna medico che è stata anche Ministro della Salute (Partito Democratico), Beatrice Lorenzin: “Subito un piano per la salute mentale, evitiamo altri drammi come questo”. Ecco, per insorgere, quasi sia inorriditi, occorre il morto, e non uno solo (tre nel nostro caso). Perché la dottoressa Lorenzin non lo ha fatto quando era alla guida del Ministero, l’istituzione più importante per la salute fisica e mentale? Sono sicuro che Franco Basaglia, se fosse vissuto di più, si sarebbe certamente ricreduto e avrebbe proposto sostanziali provvedimenti di modifica della legge indicata come 180 negli atti parlamentari del tempo ma conosciuta meglio come “legge Basaglia”. Una legge che, sì,​ ridava ai malati mentali una dignità, ma nello stesso tempo, li condannava, in un certo senso, a non curarsi adeguatamente, esponendoli a rischi giudiziari, come nel caso del giovane ingegnere di Ardea. È vero che la libertà è terapeutica ma è altrettanto vero che bisogna saperla gestire: che senso ha lasciare libero uno schizofrenico paranoide, allucinato e delirante a tematica persecutoria, che non ha coscienza di malattia? Non si fa il suo bene!
E, poi, quella legge ha omesso la dichiarazione, alla base del certificato di richiesta del Trattamento sanitario obbligatorio: “È pericoloso/a per sé e/o per gli altri”. Checché se ne dica e checché ne pensino i “basagliani”, quelli che Mario Tobino, che conosceva bene i malati di mente perché, oltre a curarli, viveva con loro nell’ospedale psichiatrico di Magliano (Lucca) con fine ironia, tutta toscana, chiamava “novatori”. Per chiudere, voglio riportare le espressioni di uno dei Padri della Psichiatria italiana, Giancarlo Reda, pronunciate nel corso di una conferenza in un ospedale, il 27 marzo del 1974: “Quando ci occupiamo dei nostri malati noi dobbiamo sentire e giudicare criticamente la nostra storicità e la loro e chiederci se usiamo della libertà che abbiamo come uomini e come psichiatri per darla, uguale alla nostra, a chi, per colpa di una malattia storica o non storica, l’ha perduta”. E ancora: "... non è violenza il trattamento, farmacologico o psicologico che sia, e non lo è nemmeno l’istituzione, se è adeguata”. Ah, se queste parole profetiche dell’illustre cattedratico dell’Università di Roma le avessero ascoltate i politici dell’epoca! Quasi sicuramente la “Basaglia” definita già allora da qualcuno “un passo avanti e due indietro” , non sarebbe nata o sarebbe stata formulata diversamente.

Redazione

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